La storia di Ludovica: imparare ad essere se stesse e non il disturbo alimentare

Circa undici anni fa, un'ospite si è inserita nella mia testa. Si presentava come la soluzione dei problemi, il rifugio sicuro, il conforto nel dolore. Sembrava così perfetta, che ogni cosa mi avvicinava a quell'idea di perfezione.

Ero alle medie, quel periodo di transizione in cui cominci a capire che la vita ha un significato, è fatta di problemi, è fatta di ostacoli, è fatta per diventare più forti. I problemi in quei giorni erano la perdita del lavoro di mia mamma, i soldi che quindi erano precisi, i nervosismi familiari, i conflitti tra genitori. Io mi sentivo responsabile, credevo di essere io ad avere un costo che non poteva essere mantenuto, oppure di essere io a trasmettere malessere e tristezza, e ancor peggio rabbia. Il senso di colpa mi divorava, letteralmente, perché mi faceva sentire lo stomaco pieno, ma senza aver mangiato.

Ero inappetente, ed in più mi impegnavo a non mangiare, perché, in modo assurdo, malsano, mi stavo convincendo che la soluzione a questi problemi, fosse la mia scomparsa. Vedevo il privarmi del cibo come la via di fuga. Mi stava consumando una malattia che ho trascurato per molti anni.

Volevo scomparire, la mia mente era occupata da questo pensiero, non riuscivo a pensare ad altro. Ho vissuto anni di depressione in cui ogni giorno piangevo chiudendomi in bagno, chiudendomi in un armadio per scappare dalla realtà, ma più facevo così, più ne sentivo il bisogno, perché non avevo strumenti per capire che in realtà la mia sofferenza doveva essere curata. Mi ero convinta di essere IL problema, di meritare i digiuni, di meritare di stare male.

Sono stati anni tristi, cupi, neri… il ruolo della mia famiglia non è stato superficiale, nemmeno loro potevano comprendere, e soldi per specialisti non potevano essere spesi. A modo loro mi hanno aiutata, ma nessuno di noi aveva gli strumenti per curarmi.

Inoltre mascheravo bene i comportamenti, era facile dire di aver già mangiato, perché a casa rientravano tutti dopo di me, oppure dire che non mi andava, non appariva problematico, perché “ha sempre mangiato poco”, già perché forse da sempre quest'ospite viveva con me e nessuno, neppure io, ne ero a conoscenza.

Se un giorno capitava di mangiare qualcosa di più, soprattutto dolci, che mi chiamavano come una tremenda tentazione, cercavo di camminare a lungo, o di fare le scale per molte volte; mi punivo.

Fa male ripercorrere questi pensieri, il dolore che provavo lo sento ancora, è una ferita profonda.

Poi arrivano gli anni delle superiori, una classe un po' distaccata, dove si formano gruppetti, e io non mi sentivo appartenente a nessuno, ero isolata. In più non facevo niente per integrarmi, declinavo inviti trovando scuse, “non posso”, ma in realtà non volevo trovarmi di fronte al pericolo cibo. Non sapevo come comportarmi.

Alla fine della seconda superiore mi sono innamorata, del ragazzo di cui oggi sono ancor più innamorata, perché ho imparato col tempo che amando me stessa, riesco ad amare di più e meglio.

L'amore mi ha salvata, i primi periodi mangiavo tranquillamente, stavo bene, poi però ricominciavano i digiuni, le privazioni e le lunghe passeggiate. In casa i problemi non mancano mai e ogni volta pensavo di risolverli con l'aiuto dell'ospite.

E più mi privavo, più mi sentivo forte.

Il mio fidanzato ha lottato molto per me, neppure lui sapeva cosa fare, ma a differenza mia e della mia famiglia, lui aveva capito che dentro di me c'ero io in una sorta di letargo, e vigile viveva al posto mio l'ospite perfezione. Lui l'aveva capito e sopportava gli umori, i rifiuti, i sabati sera chiusi in casa. Non mi ha mai abbandonato.

Però l'amore non basta, perché le malattie si curano conoscendo i sintomi, e infatti in quinta superiore, l'ansia per i voti alti, l'ansia per la maturità, mi hanno portato ad un crollo fisico. Per più di metà anno ho avuto deperimenti fisici, finché un giorno a scuola ho avuto un mancamento. Quello è stato il mio fondo, perché ognuno ha il proprio, e sta a noi capire che da lì bisogna rialzarci. Tutti si sono spaventati, le professoresse si preoccupavano che mangiassi, a casa mia sorella decise di portarmi da una nutrizionista per aiutarmi a recuperare il peso. La maturità l'ho affrontata, ho recuperato il peso, ma non ero ancora guarita.

 

Dopo il liceo, l'università, un percorso faticoso per me, da pendolare, più di un'ora e mezzo di distanza da casa. Lo studio, gli esami, i problemi a casa. Triennale impegnativa, faticosa, non sana.

Mi sono laureata un anno dopo, ma questo anno mi è servito per guarire.

L'ultimo anno in estate non stavo affatto bene, nonostante non lo percepissi, ho fatto male due esami di fila. Capivo che c'era un problema.

Il mio fidanzato ha deciso per me:”prova a segnarti in palestra con me”, ed è stato l'aiuto più efficace di tutti.

C'è da dire che in questi anni io mi sono appassionata alla cucina, al mondo dell'alimentazione, e ho studiato, cucinato, imparato molte cose, ma ovviamente utilizzavo tutto ciò che era comodo all'ospite perfezione, piuttosto che alla mia salute.

In palestra ho iniziato ad avere fame per la prima volta in vita mia. Il senso di fame non l'avevo mai provato così, perché prima era diverso, dovevo controllare tutto, adesso sentivo il bisogno di cibo.

Solo che ancora una volta usavo le nozioni in modo strategico e non sano, anche se mi nascondevo dietro questo termine.

Perciò ho parlato col mio medico per chiedere più informazioni sull'integrazione alimentare, e mi ha suggerito:”C'è una mia amica, Erica Baroncelli, è una dietista specializzata in disturbi del comportamento alimentare”.

Ma io non pensavo di averne.

Infatti dopo aver fissato il primo incontro, mi aspettavo misure di peso, massa, dieta, calorie.

Niente di tutto questo. Ho scoperto piuttosto di aver trascurato per molti anni un disturbo, una malattia che andava curata diversamente.

Erica è stata tempestiva nel capirlo e mi ha di volta in volta fornito strumenti per capirmi e per guarire. Pensavo di controllare la mia vita, ma l'ospite non se ne era mai andato, era lì a fare le veci per me.

Dopo circa 6/7 mesi ho iniziato a capire perché non mi prescrivesse una dieta, ho iniziato a capire meglio che ciò che conoscevo non lo utilizzavo per me, ma per “lei”.

Durante le visite ho imparato:

 - a riconoscere i sintomi

 - a non sottovalutare i miei comportamenti

 - a non nascondermi dietro termini come “sano” “fit” “free” “vegan”

 - a parlare

 - ad esprimermi

- a FARE, perché le poche energie che avevo non mi permettevano di fare niente, ma riacquistandole ho coltivato un orto, passioni nuove

 - ad usare strumenti come specchio e bilancia per amarmi, perché prima li evitavo, non volevo essere vista, figuriamoci guardarmi

 - ad avere più fiducia in me

 - che non ci sono regole alimentari ferree da seguire

 - che la vera libertà è diversa da quella che mi ero costruita

 - a guardarmi, dirmi che sono bella

 - a farmi guardare

 - a ballare in pubblico, a stare con gli amici senza ansia da “cena fuori”…

Ho imparato molte cose, soprattutto a non confondere me stessa con i sintomi del disturbo, io sono IO, l'ospite non è più gradito, il termine perfezione non c'è nel mio vocabolario, e sì i problemi piovono sulle nostre case, ma autopunendomi non li risolvo, affrontandoli e chiedendo aiuto sì!

Non si può riassumere tutto, ma questi sono i punti che mentre scrivo emergono.

La mia storia è diversa da un'altra, e non c'è giusto o sbagliato, non c'è competizione, c'è una malattia che va curata, e per curarla bisogna conoscerla.