OVAIO POLICISTICO E ALIMENTAZIONE

La sindrome dell’ovaio policistico è presente in circa il 5-6 % delle donne in età fertile e può comparire già nel periodo adolescenziale, quando oltre il 20% dei soggetti con oligomenorrea evidenza un quadro ecografico di policistosi ovarica.

Perché mai una dietista dovrebbe parlare di questa problematica ginecologica? Perché si tratta di una situazione clinica eterogenea nella quale sia fattori genetici, epigenetici che fattori legati al peso e all’alimentazione giocano un ruolo chiave.

La sua patogenesi è ancora dibattuta sebbene il meccanismo fisiopatologico responsabile sia strettamente correlato ai livelli circolanti di LH (ormone luteinizzante) che provoca alterazioni ormonali a cascata (produzione di testosterone, estradiolo, estrone).

Le manifestazioni cliniche sono strettamente correlate a questi ormoni e sono costituite da una variabile combinazione tra irregolarità mestruale, iperandrogenismo (irsutismo, acne, seborrea, alopecia, iperidrosi, presenti nei 2/3 delle pazienti), obesità (caratterizzata da accumulo adiposo a livello viscerae e che interssa circa la metà delle pazienti) e complicanze di natura metabolica e cardiovascolare.

L’obesità, inoltre, determina un quadro clinico più complesso come maggiore frequenza di insulino-resistenza e iperinsulinismo, acanthosis nigricans, ipertensione arteriosa, ridotta tolleranza glucidica e iperlipidemia.

La molteplicità degli aspetti patogenetici coinvolti riflette l'approccio terapeutico multidisciplinare in cui la dietista ha il ruolo di aiutare le pazienti a modificare lo stile di vita con lo scopo di migliorare la composizione corporea, il peso e la qualità alimentare in base alle problematiche metaboliche correlate.

Nelle ragazze con sindrome dell’ovaio policistico già la perdita del 5-10% del peso iniziale è in grado di ridurre significativamente l’iperandrogenia; l’abbinamento con una vita attiva è anche in grado di aumentare la sensibilità dei tessuti periferici all’insulina, migliorando il quadro glicemico. Intervenire il prima possibile è quindi in grado di ridurre il rischio delle complicanze legate alla sindrome.